Come fantasmi
I muli umani nelle cave di pietra di Ubud a Bali
testi e foto di mauro lago
le risaie intorno al resort di Ubud, Bali |
Reportage: i muli umani che trasportano le pietre per lastricare i marciapiede e le pavimentazioni delle abitazioni e dei templi nell'Isola degli Dei.
Come Fantasmi.... (prima parte)
Il resort è lontano dai rumori e dalla confusione di Kuta, lo abbiamo scelto per questo. E’ un eco lodge in mezzo alla campagna, alle verdi risaie di Ubud .
E’ sera. Intorno solo il gracchiare delle rane, il frinire dei grilli ed il fruscio del vento che spinge faticosamente, con movimento altalenante, i rami dei secolari baniani e delle palme da cocco che affollano il giardino tropicale. Insieme, il gorgoglìo dell’acqua nelle risaie, fra la vegetazione, riflette i raggi della luna nuova, ancora alta nel cielo.
Insieme alla compagnia beviamo l’ultima cosa, quindi ci ritiriamo nelle nostre camere, impazienti del giorno dopo.
Un impercettibile toc toc alla porta mi sveglia, è il mio amico, il signor Bepi. Mi alzo senza fare rumore, stanno tutti dormendo, cerco a palpo le mie cose, qualcuna preparata in posizione strategica già la sera prima. Mi vesto in fretta e seguo di buon passo l’amico che si è già incamminato.
L’alba è ancora giovane, il cielo sta già colorando di rosa. I primi bagliori del nuovo giorno si spalmano già sull’orizzonte e contornano le sagome ancora scure, di un alone dorato. Non è propriamente una bella giornata. Nel cielo si rincorrono veloci, grandi nuvole nere che non sembrano promettere nulla di buono. Ci inoltriamo per i sentieri in mezzo alle risaie, il paesaggio è da cartolina. L’alba ai tropici è uno spettacolo eccitante, indescrivibile, mozzafiato. Oramai le scure sagome informi, che ondeggiavano nell’oscurità della brezza mattutina, hanno lasciato il posto a immagini ben definite di cui ora, possiamo godere. Una natura rigogliosa, un mondo tra acqua e cielo. Dove le diverse sfumature dei verdi delle piantine di riso, delle palme e della natura tropicale fanno a gara con l’azzurro del cielo, per il predominio sula tavolozza, che al momento sembra offrirci solo questi due colori, amplificati dallo specchiarsi reciproco sulle superfici d’acqua delle risaie.
Il sole è ormai sbucato dall’orizzonte , ed i suoi raggi, ora, filtrano tra le nubi che continuano a rincorrersi veloci, regalando sprazzi di luce che si riflettono in questo mondo d’acqua.
Camminiamo oramai da più di mezz’ora, attoniti, in silenzio. Rapiti dalla bellezza incontaminata del luogo, dall'armonia genuina e semplice, eppure sublime.
Il gioco di specchi delle superfici d’acqua delle risaie, sembra raddoppiare lo spazio circostante.
Ho la sensazione di essere ingoiato da una realtà virtuale di cui non si percepisco ne i limiti, ne i contorni. Un mondo irreale a più dimensioni, di cui non ho sensazione dell’inizio, ne della fine. Un luogo in cui il cielo che si fonde con il suo riflesso, annega l’orizzonte e lo nasconde come in un gioco di prestigio. Lasciandomi incredulo e smarrito.
Così forse ora comprendo. Mi sovvien l’eterno e la mia mente corre alle scolastiche Leopardiane memorie e ricordo quel sentimento di vuoto etereo, mai capito fino in fondo, che il Poeta descriveva nei magnifici versi ne “l’infinito”
« Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare»
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare»
Fra le mie riflessioni, veniamo rapiti da voci che provengono da lontano, ora sopite ora amplificate dall’andirivieni della brezza mattutina che ora è rinforzata e trasporta qualche goccia di pioggia. Il cielo ora intona qualche boato. D’altra parte siamo nella stagione del monsone.
Proviamo a capire, cercando smarriti intorno, da dove provengono quelle voci. Identifichiamo la fonte. In lontananza alcune persone sembrano affaccendate nel lavoro dei campi, con passo andante, gli andiamo in contro, desiderosi di fare la loro conoscenza.
Non sono contadini, sono lavoratori. scambiamo quattro chiacchiere con il linguaggio dei gesti, parlano poco l’inglese, solo qualche parola. Tuttavia riusciamo a capirci, i soliti convenevoli, ci presentiamo, recito scanditi i nostri nomi: « my name is MA - U - RO, my friend is BE - PI » loro intendono, ridono. Poi è il loro turno :« me Hengki » dice il più giovane dei tre, è sulla ventina, sembra felice, fa i versi alla mia macchina fotografica, quindi indica prima una donna di mezza età ed un uomo sulla quarantina, di cui non comprendiamo i nomi.
Quindi arrivano via via altri sette lavoratori, che già da alcune ore hanno iniziato a lavorare. Si siedono alcuni minuti per riprendere fiato. Scaricano a terra alcune lastre di pietra ciascuno. Chi cinque, chi sei , chi sette od otto . Ne approfittiamo, vogliamo fare la loro conoscenza.
Sono quattro giovani donne, Meilyana, Ayushita, Ni Luh e Fidi e tre giovani uomini Adich, Nyoman e Jeephy, nomi quasi impronunciabili nella nostra lingua e di cui, ovviamente, non conosco la corrispondenza, ammesso che ci sia, con il nome italiano. Ovviamente me li sono annotati per non dimenticarli. Mi sembrava che la cantilena della loro pronuncia, il loro suono, si intonasse con eleganza in quell’ambiente così diverso.
Ni Luh, parla un po’ d’inglese e ci racconta del duro lavoro a cui sono costretti per vivere. Sono tutti provenienti da famiglie povere e per sbarcar lunario, devono accettare i lavori più umili e più faticosi. Sono tutti “muli umani”. Trasportano lastre di pietra dall’alba al tramonto. Utilizzano la testa per appoggiare un carico che può arrivare a cento - centoventi chili e percorrono un tratto di strada che non riusciamo a metterci d’accordo su quanta sia.
Chiediamo se possiamo accompagnarli. Sorridono, ci dicono di si e sembrano divertiti della nostra presenza. Ripartono, attraverso gli argini fangosi che separano una risaia dall’altra, riprende a piovere.
L’argine che percorrono decine e decine di volte al giorno, è stato tappezzato di sacchi di sabbia per rendere meno sdrucciolevole il cammino, ai piedi, tutti, portano le immancabili infradito, li seguiamo a fatica con le nostre costose scarpe da trekking.
Le risaie dopo qualche centinaio di metri lasciano il posto alla fitta vegetazione, siamo in mezzo alla foresta tropicale.
Qualche scimmia incuriosita fa capolino tra gli alberi, e nel groviglio della giungla, sia apre un sentiero scivoloso.
Ora la pioggia è diventata un diluvio, il monsone mostra i muscoli e riversa in pochi minuti tutto quello che può. Siamo fradici. Pochi minuti, poi fra la vegetazione i primi raggi di sole, quindi il caldo e l’afa.
Il sentiero precipita, quasi a piombo, diventa uno scivolo e la carovana dei “muli” ci distanzia. Con le loro improbabili calzature, quelle figure sembrano librarsi, corrono veloci giù per il dirupo ed in breve scompaiono. Fantasmi, sono fantasmi.
Le nostre scarpe tecniche sembrano in affanno, ma probabilmente le calzature non centrano, Loro sono a proprio agio, noi fuori posto. Li raggiungiamo giù, in fondo, sul greto del fiume, che nel corso dei secoli ha scavato un canyon profondo una settantina di metri.
Solo ora ci rendiamo conto di avere percorso un sentiero scavato sulla ripida parete di roccia e fango. Prendiamo coscienza che quello è pure l’unico passaggio per raggiungere la sommità.
La luce del sole si è oramai allineata al letto del fiume ed ora illumina e scalda la viva, scura roccia. La temperatura sta aumentando fastidiosamente e l’acqua scaricata dal monsone si trasforma in un’afa opprimente. L’aria si fa irrespirabile. La brezza mattutina non raggiunge il fondo del canyon e non può mitigare l’effetto riscaldante del sole.
Tutto in questa gola sembra essere estremo. Per noi almeno lo è. Seguiamo la carovana umana lungo il fiume. In fila indiana le quattro donne Meilyana, Ayushita, Ni Luh e Fidi ed i tre uomini Adich, Nyoman e Jeephy attraversano la correte. Un piccolo ponte, instabile, formato da quattro lunghe, flessibili, canne di bambù, Rese sdrucciolevoli dalla pioggia e dalla condensa. E’ il collegamento con l’altra sponda, quella dove è la cava. Lo attraversano decine e decine di volte al giorno, con le inadatte calzature di plastica che di certo non agevolano la presa e l’equilibrio. E di certo l’oscillazione dell’esile bambù non li aiuta, considerato che al ritorno lo devono attraversare con un carico di più di cento chili, in equilibrio sulla testa.
Io li seguo. Il mio amico, il signor Bepi, non si fida rimane di la. quella sponda da più sicurezza ..................
fine della prima parte
(to be continued)
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