I MULI UMANI NELLE CAVE DI PIETRA DI UBUD A BALI
FOTO E TESTI DI MAURO LAGO
.................continua dalla prima parte
L’attraversamento, sembrava più facile. Il bambù dondola, flette, sembra cedere ed amplifica esponenzialmente il movimento ad ogni passo. Il precario equilibrio, necessita di continui movimenti ed aggiustamenti della postura, per contrastare l’oscillare, pericoloso, delle esili canne. L’umidità di certo non mi aiuta e la corrente sottostante, carica della violenza dell’acqua scaricata in precedenza dal monsone estivo, di certo non rassicura. E mentre attraverso questi pochi metri, che sembrano chilometri, mi chiedo come quei fantasmi, possano passare decine e decine di volte al giorno, su quelle quattro miserevoli canne, con sulla testa carichi enormi che gli impediscono di ricercare con lo sguardo, il contatto rassicurante con la precaria superficie del bambù, senza cadere rovinosamente tra i flutti.
Finalmente arrivo di là, e rincorro su per la salita, i muli umani. Vedo la cava.
La parete rocciosa del canyon scavata, divelta, strappata, offre all’uomo, mai sazio, l’unico frutto che la madre terra può offrire in quel luogo perduto ed estremo. Quello che si è formato in millenni, che si è trasformato, che è stato plasmato nel corso di diverse ere e viene ora distrutto, devastato, divorato, dalla furia consumistica dell’uomo. Mentre la natura, quasi a metterci una pezza, cerca di nasconderlo, mimetizzarlo nella sua pancia, nel fitto della foresta pluviale che circonda questo sfregio, nella penombra dei baniani, dei ficus e delle palme secolari, per non mostrarlo al mondo.
La rigogliosità, della giungla, di questa natura verde che la costituisce, pare voluta dal volere divino, per lenire, ricucire, rimarginarle e digerire le gravi ferite inferte, alla madre terra che nulla può contro l’incoscienza e la cecità del suo figlio prediletto.
In questo angolo di mondo, poco distante dai luoghi del divertimento sfrenato di Kuta, dove i surfisti di mezzo mondo si danno appuntamento per cavalcare le onde che arrivano generose dalle immensità dell’oceano indiano, sospinte dai forti venti marini, vicino ai luoghi sacri in cui i balinesi, induisti ed animisti, consumano i loro riti propiziatori in circa duecentocinquanta feste religiose l’anno, adiacenti alle migliaia di turisti che invadono tutto l’anno questa perla indonesiana nell’oceano indiano, alla ricerca di una vacanza esotica, si consumano contemporaneamente i drammi dello sfregio della naturale selvaggia bellezza di questo canyon e il dramma di questi lavoratori, resi muli da soma dal destino, dalla casualità degli eventi, dalle regole non scritte che ognuno di noi si porta appresso fin dalla nostra venuta in terra.
La ripida parete, di cui non si legge più la forma originaria, ha lasciato il posto ad una muratura verticale di roccia vulcanica, solidificata da secoli, finemente ricamata dalla mano dell’uomo e che, se isolata e decontestualizzata, potrebbe assumere le sembianze di una immensa opera d’arte moderna, di fine fattura, che potrebbe far ben figurare la più importante parete di una galleria o di un importante museo.
In questo canyon, però, vicino a questo fiume così selvaggio, in questo paesaggio integro, dove la natura potrebbe e dovrebbe farla da padrona, quest’opera umana è fuori posto.
Troppo spesso, purtroppo, i bisogni dell’uomo passano per l’impoverimento delle risorse naturali. Risorse non rinnovabili ne ripetibili. Risorse che una volta perse, rimangono solo ricordi destinati ad essere cancellati, dal tempo, come lacrime nella pioggia.
Il sentiero è ripido e sconnesso, porta sulla sommità, sul pianoro adibito a deposito, in cui, tutti allineati in file sovrapposta, più o meno regolari, ordinate, sono posate le lastre. Il carico, pesante, che per tutto il giorno, i fantasmi che ho di fronte, devono portare fuori dalla gola. Per dodici, quattordici ore, ininterrottamente dall’alba al tramonto. Con la pioggia, con il sole, con l’afa, fatiche che servono a soddisfare la fame delle attività umane dell’isola degli dei.
Sulla sommità le seghe, che tagliano la roccia, stridono facendo a gara per il predominio, con il fragore della corrente del fiume.
Un altro lavoratore, Jawal, è intento a smuovere gli strati di roccia che poi, resi regolari nella forma, saranno trasportati sulle teste dei “muli” su per la scarpata, fino al deposito in mezzo alle risaie. Quindi altri “portatori” più fortunati li caricheranno, sempre sulle loro teste e li porteranno al vicino deposito, percorrendo un comodo sentiero pianeggiante, all’ombra dei baniani secolari e delle palme da cocco.
Jawal lavora alla cava a piedi nudi, senza protezioni di sorta e lo sforzo fisico di ore ed ore, che ogni giorno lo costringe, gli ha modellato un fisico possente, mentre il sole dei tropici ha conferito un colore ambrato alla sua carnagione. Il tatuaggio tribale che orna il suo pettorale, il fazzoletto annodato orgogliosamente alla fronte, l’atteggiamento austero lo fanno sembrare un capo tribù. Il capo di una di quelle tribù che fino a qualche decennio fa, in questo angolo di paradiso tropicale, vivevano in simbiosi con la natura, in armonia con la madre terra e con gli dei e regolavano la loro esistenza con i ritmi cosmici del giorno, della notte, e del cerimoniale di una vita al ritmo del volere divino.
Invece Jawal è uno dei lavoratori della cava, che si spacca la schiena per poche rupie al giorno per estrarre quelle pietre che poi un altro lavoratore lì vicino sega, dando la forma, sul quel vecchio macchinario, che stride ininterrottamente. Ed il suo grido, lancinante, ossessivo sembra il grido di dolore del pianeta, sfregiato, smembrato, mutilato e depredato del suo sangue vitale, della materia che lo costituisce, della linfa che lo fa vivere. Il grido di dolore di una madre a cui viene sottratto un figlio, la carne, il sangue del suo sangue.
Meilyana ha completato il carico, la riconosco dalla maglia a righe, sulla testa ha cinque lastre, poco meno di cento chili, si incammina giù per il sentiero dissetato, con i piedi indifesi, protetti solo dall’esile soletta di plastica dell’infradito.
Con passi misurati, ma sicuri, raggiunge il letto del fiume ed attraversa, sospesa sugli esili, elastici fuscelli, la corrente. Giunge sull’altra sponda, quella più rassicurante in cui, prudentemente attende il signor Bepi, che si gode il principio del giorno comodamente seduto su un masso scuro e levigato. Via Via, la carovana si rimette in moto, ed il pesante carico, prende la via del deposito. Ad uno, ad uno, uomini e donne schiacciati dal peso delle lastre, apparentemente senza sforzo, attraversano il ponte. Sembrano danzare, mentre lo attraversano. Il movimento elastico del bambù, fa somigliare la carovana ad un corpo di ballo. Le lastre, da lontano sono copricapi sacri, degni di una delle innumerevoli feste religiose che si tengono nell’isola ed il movimento che tutti insieme compiono, coordinatamente, pare una danza sacra in onore degli Dei.
“fantasmi” sono ora diventati dei danzatori. Con grazia impossibile, percorrono il breve tratto di alveo che corre parallelo alla corrente e l‘ancheggiare armonioso delle esili forme delle donne che aprono la carovana, seguite dal contrastato, meno aggraziato movimento del corpo maschile degli uomini, paiono dei contrappunti di una melodia celeste, di una soave melodia che, non percepita dai più, invade maestosamente il secolare canyon.
In pochi minuti, i “sacri portatori” scompaiono, tutti inghiottiti dalla selva. Su per l’irto sentiero. Sono tornati ad essere fantasmi.
Riattraverso i flutti, quella corrente che ora mi pare ”l’Acheronte”, il fiume su cui Caronte, guardiano infernale, traghettava le anime dei dannati per portarli nei gironi immaginati dalla dantesca fantasia del sommo poeta.
Il ponte sembra collegare due mondi, quello di là, il mondo dei dannati, quelli che nella vita sono nati nudi, di qua quelli più fortunati, quelli nati con la camicia.
Ci inerpichiamo, su per la salita. Il sottobosco, profuma di muffe, di verde, di fiori selvatici. Il sentiero è sdrucciolevole e la salita non è semplice. La pendenza è da arrampicata e la conquista della vetta, non è certo aiutata dal caldo soffocante. Ci prendiamo diverse soste per rifiatare, alla fine guadagniamo la cima. Col fiato lungo ci chiediamo come fanno loro “i fantasmi” carichi come muli, continuare per ore in quell’andirivieni per noi impossibile.
Il sole, ora che siamo fuori dalla foresta, splende alto nel cielo e diffonde il suo rassicurante calore in ogni dove. I contadini sono impegnati nel lavoro dei campi, pure faticoso, ma certo non paragonabile con quello dei muli umani che abbiamo appena lasciato. Il mondo che riappare, con i suoi colori, i suoi profumi, i suoi rumori, giunge rinfrancante.
Mai ho rivisto tanto volentieri l’orizzonte, la linea di contatto tra terra e cielo, che ora si specchia si amplifica e scompare nel riflesso lucido delle risaie, le piantine di riso che spuntano a nuova vita, certezza di abbondanti raccolti, l’ondeggiare maestoso dei grandi alberi. Mai ho sentito con più appetito, il frinio delle cicale che a squarciagola urlano tutto il loro amore per il pianeta, dall’ombra delle fronde, il canto degli uccelli che volteggiano alti nel cielo.
Pure il ticchettio delle valvole e dei pistoni delle motozzappe, che stanno ranghinando nel pantano delle risaie, condotte dalle possenti braccia dei contadini, paiono un suono soave.
Ora che siamo stati in quel buco. Ora che abbiamo la “conoscenza” di quella realtà nascosta, l’illuminazione di quella realtà che nessuno vede e forse a nessuno interessa di vedere.
Troppo lontana e scomoda, troppo “estrema” e diversa dalla spensieratezza, dal lusso, dal clima vacanziero per cui è conosciuta in tutto il mondo l’isola degli Dei.
Ricordo volentieri il momento in cui ci siamo salutati. Quando incrociandoli, finalmente scarichi, privi del carico da soma, ci hanno salutati senza lesinare sui sorrisi e sulle pacche sulle spalle. Poi scherzando tra di loro, si sono rituffati nel groviglio verde, giù verso l’inferno.
Fantasmi, fantasmi. Sono fantasmi!
Ubud, Bali 17 giugno 2010 foto e testi by mauro lago
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