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sabato 26 maggio 2012

COME FANTASMI (PARTE II)

I MULI UMANI NELLE CAVE DI PIETRA DI UBUD A BALI

FOTO E TESTI DI MAURO LAGO



.................continua dalla prima parte

L’attraversamento, sembrava più facile. Il bambù dondola, flette, sembra cedere ed amplifica esponenzialmente il movimento ad ogni passo. Il precario equilibrio, necessita di continui movimenti ed aggiustamenti della postura, per contrastare l’oscillare, pericoloso, delle esili canne. L’umidità di certo non mi aiuta e la corrente sottostante, carica della violenza dell’acqua scaricata in precedenza dal monsone estivo, di certo non rassicura. E mentre attraverso questi pochi metri, che sembrano chilometri, mi chiedo come quei fantasmi, possano passare decine e decine di volte al giorno, su quelle quattro miserevoli canne, con sulla testa carichi enormi che gli impediscono di ricercare con lo sguardo, il contatto rassicurante con la precaria superficie del bambù, senza cadere rovinosamente tra i flutti.
Finalmente arrivo di là, e rincorro su per la salita, i muli umani. Vedo la cava.

La parete rocciosa del canyon scavata, divelta, strappata, offre all’uomo, mai sazio, l’unico frutto che la madre terra può offrire in quel luogo perduto ed estremo. Quello che si è formato in millenni, che si è trasformato, che è stato plasmato nel corso di diverse ere e viene ora distrutto, devastato, divorato, dalla furia consumistica dell’uomo. Mentre la natura, quasi a metterci una pezza, cerca di nasconderlo, mimetizzarlo nella sua pancia, nel fitto della foresta pluviale che circonda questo sfregio, nella penombra dei baniani, dei ficus e delle palme secolari, per non mostrarlo al mondo.
La rigogliosità, della giungla, di questa natura verde che la costituisce, pare voluta dal volere divino, per lenire, ricucire, rimarginarle e digerire le gravi ferite inferte, alla madre terra che nulla può contro l’incoscienza e la cecità del suo figlio prediletto.
In questo angolo di mondo, poco distante dai luoghi del divertimento sfrenato di Kuta, dove i surfisti di mezzo mondo si danno appuntamento per cavalcare le onde che arrivano generose dalle immensità dell’oceano indiano, sospinte dai forti venti marini, vicino ai luoghi sacri in cui i balinesi, induisti ed animisti, consumano i loro riti propiziatori in circa duecentocinquanta feste religiose l’anno, adiacenti alle migliaia di turisti che invadono tutto l’anno questa perla indonesiana nell’oceano indiano, alla ricerca di una vacanza esotica, si consumano contemporaneamente i drammi dello sfregio della naturale selvaggia bellezza di questo canyon e il dramma di questi lavoratori, resi muli da soma dal destino, dalla casualità degli eventi, dalle regole non scritte che ognuno di noi si porta appresso fin dalla nostra venuta in terra.
La ripida parete, di cui non si legge più la forma originaria, ha lasciato il posto ad una muratura verticale di roccia vulcanica, solidificata da secoli, finemente ricamata dalla mano dell’uomo e che, se isolata e decontestualizzata, potrebbe assumere le sembianze di una immensa opera d’arte moderna, di fine fattura, che potrebbe far ben figurare la più importante parete di una galleria o di un importante museo.


In questo canyon, però, vicino a questo fiume così selvaggio, in questo paesaggio integro, dove la natura potrebbe e dovrebbe farla da padrona, quest’opera umana è fuori posto. 
Troppo spesso, purtroppo, i bisogni dell’uomo passano per l’impoverimento delle risorse naturali. Risorse non rinnovabili ne ripetibili. Risorse che una volta perse, rimangono solo ricordi destinati ad essere cancellati, dal tempo, come lacrime nella pioggia.  
Il sentiero è ripido e sconnesso, porta sulla sommità, sul pianoro adibito a deposito, in cui, tutti allineati in file sovrapposta, più o meno regolari, ordinate, sono posate le lastre. Il carico, pesante, che per tutto il giorno, i fantasmi che ho di fronte, devono portare fuori dalla gola. Per dodici, quattordici ore, ininterrottamente dall’alba al tramonto. Con la pioggia, con il sole, con l’afa, fatiche che servono a soddisfare la fame delle attività umane dell’isola degli dei.
Sulla sommità le seghe, che tagliano la roccia, stridono facendo a gara per il predominio, con il fragore della corrente del fiume. 

Un altro lavoratore, Jawal, è intento a smuovere gli strati di roccia che poi, resi regolari nella forma, saranno trasportati sulle teste dei “muli” su per la scarpata, fino al deposito in mezzo alle risaie. Quindi altri “portatori” più fortunati li caricheranno, sempre sulle loro teste e li porteranno al vicino deposito, percorrendo un comodo sentiero pianeggiante, all’ombra dei baniani secolari e delle palme da cocco. 



Jawal lavora alla cava a piedi nudi, senza protezioni di sorta e lo sforzo fisico di ore ed ore, che ogni giorno lo costringe, gli ha modellato un fisico possente, mentre il sole dei tropici ha conferito un colore ambrato alla sua carnagione. Il tatuaggio tribale che orna il suo pettorale, il fazzoletto annodato orgogliosamente alla fronte, l’atteggiamento austero lo fanno sembrare un capo tribù. Il capo di una di quelle tribù che fino a qualche decennio fa, in questo angolo di paradiso tropicale, vivevano in simbiosi con la natura, in armonia con la madre terra e con gli dei e regolavano la loro esistenza con i ritmi cosmici del giorno, della notte, e del cerimoniale di una vita al ritmo del volere divino. 


Invece Jawal è uno dei lavoratori della cava, che si spacca la schiena per poche rupie al giorno per estrarre quelle pietre che poi un altro lavoratore lì vicino sega, dando la forma, sul quel vecchio macchinario, che stride ininterrottamente. Ed il suo grido, lancinante, ossessivo sembra il grido di dolore del pianeta, sfregiato, smembrato,  mutilato e depredato del suo sangue vitale, della materia che lo costituisce, della linfa che lo fa vivere. Il grido di dolore di una madre a cui viene sottratto un figlio, la carne, il sangue del suo sangue.


Meilyana ha completato il carico, la riconosco dalla maglia a righe, sulla testa ha cinque lastre, poco meno di cento chili, si incammina giù per il sentiero dissetato, con i piedi indifesi, protetti solo dall’esile soletta di plastica dell’infradito.
Con passi misurati, ma sicuri, raggiunge il letto del fiume ed attraversa, sospesa sugli esili, elastici fuscelli, la corrente. Giunge sull’altra sponda, quella più rassicurante in cui, prudentemente attende il signor Bepi, che si gode il principio del giorno comodamente seduto su un masso scuro e levigato. Via Via, la carovana si rimette in moto, ed il pesante carico, prende la via del deposito. Ad uno, ad uno, uomini e donne schiacciati dal peso delle lastre, apparentemente senza sforzo, attraversano il ponte. Sembrano danzare, mentre lo attraversano. Il movimento elastico del bambù, fa somigliare la carovana ad un corpo di ballo. Le lastre, da lontano sono copricapi sacri, degni di una delle innumerevoli feste religiose che si tengono nell’isola ed il movimento che tutti insieme compiono, coordinatamente, pare una danza sacra in onore degli Dei.







 “fantasmi” sono ora diventati dei danzatori. Con grazia impossibile, percorrono il breve tratto di alveo che corre parallelo alla corrente e       l‘ancheggiare armonioso delle esili forme delle donne che aprono la carovana, seguite dal contrastato, meno aggraziato movimento del corpo maschile degli uomini, paiono dei contrappunti di una melodia celeste, di una soave melodia che, non percepita dai più, invade maestosamente il secolare canyon.
In pochi minuti, i “sacri portatori” scompaiono, tutti inghiottiti dalla selva. Su per l’irto sentiero. Sono tornati ad essere fantasmi.
Riattraverso i flutti, quella corrente che ora mi pare ”l’Acheronte”, il fiume su cui Caronte, guardiano infernale, traghettava le anime dei dannati per portarli nei gironi immaginati dalla dantesca fantasia del sommo poeta. 
Il ponte sembra collegare due mondi, quello di là, il mondo dei dannati, quelli che nella vita sono nati nudi, di qua quelli più fortunati, quelli nati con la camicia.
Ci inerpichiamo, su per la salita. Il sottobosco, profuma di muffe, di verde, di fiori selvatici. Il sentiero è sdrucciolevole e la salita non è semplice. La pendenza è da arrampicata e la conquista della vetta, non è certo aiutata dal caldo soffocante. Ci prendiamo diverse soste per rifiatare, alla fine guadagniamo la cima. Col fiato lungo ci chiediamo come fanno loro “i fantasmi” carichi come muli, continuare per ore in quell’andirivieni per noi impossibile. 
Il sole, ora che siamo fuori dalla foresta, splende alto nel cielo e diffonde il suo rassicurante calore in ogni dove. I contadini sono impegnati nel lavoro dei campi, pure faticoso, ma certo non paragonabile con quello dei muli umani che abbiamo appena lasciato. Il mondo che riappare, con i suoi colori, i suoi profumi, i suoi rumori, giunge rinfrancante. 
Mai ho rivisto tanto volentieri l’orizzonte, la linea di contatto tra terra e cielo, che ora si specchia si amplifica e scompare nel riflesso lucido delle risaie, le piantine di riso che spuntano a nuova vita, certezza di abbondanti raccolti, l’ondeggiare maestoso dei grandi alberi. Mai ho sentito con più appetito, il frinio delle cicale che a squarciagola urlano tutto il loro amore per il pianeta, dall’ombra delle fronde, il canto degli uccelli che volteggiano alti nel cielo.
Pure il ticchettio delle valvole e dei pistoni delle motozzappe, che stanno ranghinando nel pantano delle risaie, condotte dalle possenti braccia dei contadini, paiono un suono soave.



Ora che siamo stati in quel buco. Ora che abbiamo la “conoscenza” di quella realtà nascosta, l’illuminazione di quella realtà che nessuno vede e forse a nessuno interessa di vedere. 
Troppo lontana e scomoda, troppo “estrema” e diversa dalla spensieratezza, dal lusso, dal clima vacanziero per cui è conosciuta in tutto il mondo l’isola degli Dei.
Ricordo volentieri il momento in cui ci siamo salutati. Quando incrociandoli, finalmente scarichi, privi del carico da soma, ci hanno salutati senza lesinare sui sorrisi e sulle pacche sulle spalle. Poi scherzando tra di loro, si sono rituffati nel groviglio verde, giù verso l’inferno. 
Fantasmi, fantasmi. Sono fantasmi!

Ubud, Bali 17 giugno 2010             foto e testi  by   mauro lago
















domenica 20 maggio 2012


Come fantasmi

I muli umani nelle cave di pietra di Ubud a Bali
testi e foto di mauro lago

le risaie intorno al resort di Ubud, Bali


Reportagei muli umani che trasportano le pietre per lastricare i marciapiede e le pavimentazioni delle abitazioni e dei templi nell'Isola degli Dei.



Come Fantasmi.... (prima parte)


Il resort è lontano dai rumori e dalla confusione di Kuta, lo abbiamo scelto per questo. E’ un eco lodge in mezzo alla campagna, alle verdi risaie di Ubud .
E’ sera. Intorno solo il gracchiare delle rane, il frinire dei grilli ed il fruscio del vento che spinge faticosamente, con movimento  altalenante, i rami dei secolari baniani e delle palme da cocco che affollano il giardino tropicale. Insieme, il gorgoglìo dell’acqua nelle risaie, fra la vegetazione, riflette i raggi della luna nuova, ancora alta nel cielo. 
Insieme alla compagnia beviamo l’ultima cosa, quindi ci ritiriamo nelle nostre camere, impazienti del giorno dopo. 
Un impercettibile toc toc alla porta mi sveglia, è il mio amico, il signor Bepi. Mi alzo senza fare rumore, stanno tutti dormendo, cerco a palpo le mie cose, qualcuna preparata in posizione strategica già la sera prima. Mi vesto in fretta e seguo di buon passo l’amico che si è già incamminato. 

L’alba è ancora giovane, il cielo sta già colorando di rosa. I primi bagliori del nuovo giorno si spalmano già sull’orizzonte e contornano le sagome ancora scure, di un alone dorato. Non è propriamente una bella giornata. Nel cielo si rincorrono veloci, grandi nuvole nere che non sembrano promettere nulla di buono. Ci inoltriamo per i sentieri in mezzo alle risaie, il paesaggio è da cartolina. L’alba ai tropici è uno spettacolo eccitante, indescrivibile, mozzafiato. Oramai le scure sagome informi, che ondeggiavano nell’oscurità della brezza mattutina, hanno lasciato il posto a immagini ben definite di cui ora, possiamo godere. Una natura rigogliosa, un mondo tra acqua e cielo. Dove  le diverse sfumature dei verdi delle piantine di riso, delle palme e della natura tropicale fanno a gara con l’azzurro del cielo, per il predominio sula tavolozza, che al momento sembra offrirci solo questi due colori, amplificati dallo specchiarsi reciproco sulle superfici d’acqua delle risaie.










Il sole è ormai sbucato dall’orizzonte , ed i suoi raggi, ora, filtrano tra le nubi che continuano a rincorrersi veloci, regalando sprazzi di  luce che si riflettono in questo mondo d’acqua. 

Camminiamo oramai da più di mezz’ora, attoniti, in silenzio. Rapiti dalla bellezza incontaminata del luogo, dall'armonia genuina e semplice, eppure sublime.

Il gioco di specchi delle superfici d’acqua delle risaie, sembra raddoppiare lo spazio circostante.

Ho la sensazione di essere ingoiato da una realtà virtuale di cui non si percepisco ne i limiti, ne i contorni. Un mondo irreale a più dimensioni, di cui non ho sensazione dell’inizio, ne della fine. Un luogo in cui il cielo che si fonde con il suo riflesso, annega l’orizzonte e lo nasconde come in un gioco di prestigio. Lasciandomi incredulo e smarrito. 


Così forse ora comprendo.  Mi sovvien l’eterno e la mia mente corre alle scolastiche Leopardiane memorie e ricordo quel sentimento di vuoto etereo, mai capito fino in fondo, che il Poeta descriveva nei magnifici versi ne “l’infinito” 

« Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare»

Fra le mie riflessioni, veniamo rapiti da voci che provengono da lontano, ora sopite ora amplificate dall’andirivieni della brezza mattutina che ora è rinforzata e trasporta qualche goccia di pioggia. Il cielo ora intona qualche boato. D’altra parte siamo nella stagione del monsone. 





Proviamo a capire, cercando smarriti intorno, da dove provengono quelle voci. Identifichiamo la fonte. In lontananza alcune persone sembrano affaccendate nel lavoro dei campi, con passo andante, gli andiamo in contro, desiderosi di fare la loro conoscenza.




Non sono contadini, sono lavoratori. scambiamo quattro chiacchiere con il linguaggio dei gesti, parlano poco l’inglese, solo qualche parola. Tuttavia riusciamo a capirci, i soliti convenevoli, ci presentiamo, recito scanditi i nostri nomi: « my name is MA - U - RO, my friend is BE - PI »  loro intendono, ridono. Poi è il loro turno :« me Hengki » dice il più giovane dei tre, è sulla ventina, sembra felice, fa i versi alla mia macchina fotografica, quindi indica prima una donna di mezza età ed un uomo sulla quarantina, di cui non comprendiamo i nomi.







Quindi arrivano via via altri sette lavoratori, che già da alcune ore hanno iniziato a lavorare. Si siedono alcuni minuti per riprendere fiato. Scaricano a terra alcune lastre di pietra ciascuno. Chi cinque, chi sei , chi sette od otto . Ne approfittiamo, vogliamo fare la loro conoscenza.



Sono quattro giovani donne, Meilyana, Ayushita, Ni Luh e Fidi e tre giovani uomini Adich, Nyoman e Jeephy, nomi quasi impronunciabili nella nostra lingua e di cui, ovviamente, non conosco la corrispondenza, ammesso che ci sia, con il nome italiano. Ovviamente me li sono annotati per non dimenticarli. Mi sembrava che la cantilena della loro pronuncia, il loro suono, si intonasse con eleganza in quell’ambiente così diverso.
      Ci sono anche i due piccoli figli di Fidi che sono venuti a salutare la mamma.








Ni Luh, parla un po’ d’inglese e ci racconta del duro lavoro a cui sono costretti per vivere. Sono tutti provenienti da famiglie povere e per sbarcar lunario, devono accettare i lavori più umili e più faticosi. Sono tutti “muli umani”. Trasportano lastre di pietra dall’alba al tramonto. Utilizzano la testa per appoggiare un carico che può arrivare a cento  - centoventi chili e percorrono un tratto di strada che non riusciamo a metterci d’accordo su quanta sia. 


Chiediamo se possiamo accompagnarli. Sorridono, ci dicono di si e sembrano divertiti della nostra presenza. Ripartono, attraverso gli argini fangosi che separano una risaia dall’altra, riprende a piovere.

L’argine che percorrono decine e decine di volte al giorno, è stato tappezzato di sacchi di sabbia per rendere meno sdrucciolevole il cammino, ai piedi, tutti, portano le immancabili infradito, li seguiamo a fatica con le nostre costose scarpe da trekking.

Le risaie dopo qualche centinaio di metri lasciano il posto alla fitta vegetazione, siamo in mezzo alla foresta tropicale.


Qualche scimmia incuriosita fa capolino tra gli alberi, e nel groviglio della giungla, sia apre un sentiero scivoloso. 






Ora la pioggia è diventata un diluvio, il monsone mostra i muscoli e riversa in pochi minuti tutto quello che può. Siamo fradici. Pochi minuti, poi fra la vegetazione i primi raggi di sole, quindi il caldo e l’afa.


Il sentiero precipita, quasi a piombo, diventa uno scivolo e la carovana dei “muli” ci distanzia. Con le loro improbabili calzature, quelle figure sembrano librarsi, corrono veloci giù per il dirupo ed in breve scompaiono. Fantasmi, sono fantasmi. 


Le nostre scarpe tecniche sembrano in affanno, ma probabilmente le calzature non centrano, Loro sono a proprio agio, noi fuori posto. Li raggiungiamo giù, in fondo, sul greto del fiume, che nel corso dei secoli ha scavato un canyon profondo una settantina di metri.
Solo ora ci rendiamo conto di avere percorso un sentiero scavato sulla ripida parete di roccia e fango. Prendiamo coscienza che quello è pure l’unico passaggio per raggiungere la sommità.


La luce del sole si è oramai allineata al letto del fiume ed ora illumina e  scalda la viva, scura roccia. La temperatura sta aumentando fastidiosamente e l’acqua scaricata dal monsone si trasforma in un’afa opprimente. L’aria si fa irrespirabile. La brezza mattutina non raggiunge il fondo del canyon e non può mitigare l’effetto riscaldante del sole.
Tutto in questa gola sembra essere estremo. Per noi almeno lo è. Seguiamo la carovana umana lungo il fiume. In fila indiana le quattro donne Meilyana, Ayushita, Ni Luh e Fidi ed i tre uomini Adich, Nyoman e Jeephy attraversano la correte. Un piccolo ponte, instabile, formato da quattro lunghe, flessibili, canne di bambù, Rese sdrucciolevoli dalla pioggia e dalla condensa. E’ il collegamento con l’altra sponda, quella dove è la cava. Lo attraversano decine e decine di volte al giorno, con le inadatte calzature di plastica che di certo non agevolano la presa e l’equilibrio. E di certo l’oscillazione dell’esile bambù non li aiuta, considerato che al ritorno lo devono attraversare con un carico di più di cento chili, in equilibrio sulla testa.





Io li seguo. Il mio amico, il signor Bepi, non si fida rimane di la.  quella sponda da più sicurezza ..................

     fine della prima parte

      (to be continued)

giovedì 17 maggio 2012



Islanda , rudimentali esercizi di Democrazia

L'ex primo ministro islandese alla sbarra. Imputato si alzi e dica crack!
    (fino a ieri sembrava una cosa impossibile)



Ed ecco perché chiedo la piena condanna per tutti i quattro capi d’imputazione“. Pronunciate queste ultime parole, Sigriõur Friõjónsdóttir resta in piedi, i lineamenti del volto ancora più sottili e solcati, i capelli corti bianchi che tradiscono perle di sudore. Il procuratore generale è una donna di mezz’età dal tratto fine e dallo sguardo di ghiaccio.

Ha parlato per tre ore con un breve intervallo di 15 minuti in un silenzio spettrale mentre dai finestroni dell’Alta corte di Reykjavik entra la luce sottile di queste giornate che annunciano l’equinozio di primavera. È mezzogiorno di venerdì 16 marzo e raggiunge l’apice l’ordalia purificatrice, la Norimberga della finanza, l’unico processo al mondo per punire i responsabili della grande crisi che ha portato al fallimento l’Islanda, piccolo paese con 320 mila abitanti, ma uno dei più ricchi al mondo in termini di reddito pro-capite.

Alla sbarra c’è Geir Hilmar Haarde, ex primo ministro, leader del Partito dell’indipendenza, liberale e liberista, protagonista delle privatizzazioni che hanno preparato il grande boom. «È un travestimento della giustizia» sostiene Hannes Gissurarson, politologo dell’Università islandese. “Una procedura tribale” scrive Christopher Caldwell sul Financial Times.

Quest’isola vulcanica al limite del Circolo polare, inesauribile fonte di saghe scandinave, era diventata la più ruggente delle tigri nordiche con una crescita del 6 per cento annuo, tre volte la media europea. Opere pubbliche fantasmagoriche come l’Harpa, una sala da concerti grande quanto la Royal Opera House londinese. Profitti che uscivano da una borsa cornucopia, finivano nelle tasche dei Viking raider, i nuovi finanzieri d’assalto, poi gocciolavano giù giù fino all’ultimo pescatore d’aringhe o cacciatore di balene. Le tre banche private, Landsbanki, Glitnir e Haupthing, prendevano i risparmi e speculavano nella City di Londra. Al culmine del loro delirio avevano una esposizione 11 volte superiore al prodotto lordo. Finché nel settembre 2008 non è collassata la Lehman Brothers.
Il racconto dettagliato di errori, omissioni, complicità, è scritto nelle 2.300 pagine del Rapporto verità, stilato dagli inquirenti su mandato del parlamento (il via libera è passato di stretta misura il 28 settembre) e giace sul tavolo davanti ai 15 giudici del Landsdòmur, il tribunale speciale creato nel 1905 per mettere sotto esame i membri del governo sospettati di comportamenti criminali. E Haarde, secondo Friõjónsdóttir, ha violato più volte le leggi, non solo per negligenza ma per la scelta deliberata di favorire le banche in mano ad amici e sostenitori. (fonte Blog/panorama.it)




No, state tranquilli, non è l’inizio di un romanzo di Dan Brown e neppure l’ultimo best seller di Ken Follet, bensì il resoconto di un avvenimento unico ....che a volte, pur nella incredulità generale, avviene e rende finalmente giustizia, in un mondo pieno di ingiustizie, ai deboli, agli oppressi, agli indifesi dalla prepotenza dei potenti.
Ma vediamo come tutto è iniziato......

La storia, il perché lo si capirà dopo, è una di quelle storie che nessuno racconta a gran voce, che vengono piuttosto sussurrate di bocca in orecchio, al massimo narrate davanti ad una tavola imbandita o inviate per e-mail ai propri amici. È la storia di una delle nazioni più ricche al mondo, che ha affrontato la crisi peggiore mai piombata addosso ad un paese industrializzato e ne è uscita nel migliore dei modi.
L'Islanda. Già, proprio quel paese che in pochi sanno dove stia esattamente, noto alla cronaca per vulcani dai nomi impronunciabili che con i loro sbuffi bianchi sono in grado di congelare il traffico aereo di un intero emisfero, ha dato il via ad un'eruzione ben più significativa, seppur molto meno conosciuta. Un'esplosione democratica che terrorizza i poteri economici e le banche di tutto il mondo, che porta con se messaggi rivoluzionari: di democrazia diretta, autodeterminazione finanziaria, annullamento del sistema del debito.

Ma procediamo con ordine. L'Islanda è un'isola di sole di 320mila anime – il paese europeo meno popolato se si escludono i micro-stati – privo di esercito. Una città come Bari spalmata su un territorio vasto 100mila chilometri quadrati, un terzo dell'intera Italia, situato un poco a sud dell'immensa Groenlandia.
15 anni di crescita economica avevano fatto dell'Islanda uno dei paesi più ricchi del mondo. Ma su quali basi poggiava questa ricchezza? Il modello di 'neoliberismo puro' applicato nel paese che ne aveva consentito il rapido sviluppo avrebbe ben presto presentato il conto. Nel 2003 tutte le banche del paese erano state privatizzate completamente. Da allora esse avevano fatto di tutto per attirare gli investimenti stranieri, adottando la tecnica dei conti online, che riducevano al minimo i costi di gestione e permettevano di applicare tassi di interesse piuttosto alti. IceSave, si chiamava il conto, una sorta del nostrano Conto Arancio. Moltissimi stranieri, soprattutto inglesi e olandesi vi avevano depositato i propri risparmi.


Si trattava di circa 100 euro al mese a persona, che ogni cittadino della nazione avrebbe dovuto pagare per 15 anni; un totale di 18mila euro a testa per risarcire un debito contratto da un privato nei confronti di altri privati. Einars Már Gudmundsson, un romanziere islandese, ha recentemente affermato che quando avvenne il crack, “gli utili [delle banche, ndr] sono stati privatizzati ma le perdite sono state nazionalizzate”. Per i cittadini d'Islanda era decisamente troppo.

Fu qui che qualcosa si ruppe. E qualcos'altro invece si riaggiustò. Si ruppe l'idea che il debito fosse un'entità sovrana, in nome della quale era sacrificabile un'intera nazione. Che i cittadini dovessero pagare per gli errori commessi da un manipoli di banchieri e finanzieri. Si riaggiustò d'un tratto il rapporto con le istituzioni, che di fronte alla protesta generalizzata decisero finalmente di stare dalla parte di coloro che erano tenuti a rappresentare.



Accadde che il capo dello Stato, Ólafur Ragnar Grímsson, si rifiutò di ratificare la legge che faceva ricadere tutto il peso della crisi sulle spalle dei cittadini e indisse, su richiesta di questi ultimi, un referendum, di modo che questi si potessero esprimere.
La comunità internazionale aumentò allora la propria pressione sullo stato islandese. Olanda ed Inghilterra minacciarono pesanti ritorsioni, arrivando a paventare l'isolamento dell'Islanda. I grandi banchieri di queste due nazioni usarono il loro potere ricattare il popolo che si apprestava a votare. Nel caso in cui il referendum fosse passato, si diceva, verrà impedito ogni aiuto da parte del Fmi, bloccato il prestito precedentemente concesso. Il governo inglese arrivò a dichiarare che avrebbe adottato contro l'Islanda le classiche misure antiterrorismo: il congelamento dei risparmi e dei conti in banca degli islandesi. “Ci è stato detto che se rifiutiamo le condizioni, saremo la Cuba del nord – ha continuato Grímsson nell'intervista - ma se accettiamo, saremo l’Haiti del nord”.
A marzo 2010, il referendum venne stravinto, con il 93 per cento delle preferenze, da chi sosteneva che il debito non dovesse essere pagato dai cittadini. Le ritorsioni non si fecero attendere: il Fmi congelò immediatamente il prestito concesso. Ma la rivoluzione non si fermò. Nel frattempo, infatti, il governo – incalzato dalla folla inferocita – si era mosso per indagare le responsabilità civili e penali del crollo finanziario. L'Interpool emise un ordine internazionale di arresto contro l’ex-Presidente della Kaupthing, Sigurdur Einarsson. Gli altri banchieri implicati nella vicenda abbandonarono in fretta l'Islanda.
In questo clima concitato si decise di creare ex novo una costituzione islandese, che sottraesse il paese allo strapotere dei banchieri internazionali e del denaro virtuale. Quella vecchia risaliva a quando il paese aveva ottenuto l'indipendenza dalla Danimarca, ed era praticamente identica a quella danese eccezion fatta per degli aggiustamenti marginali (come inserire la parola 'presidente' al posto di 're').





Per la nuova carta si scelse un metodo innovativo. Venne eletta un'assemblea costituente composta da 25 cittadini. Questi furono scelti, tramite regolari elezioni, da una base di 522 che avevano presentato la candidatura. Per candidarsi era necessario essere maggiorenni, avere l'appoggio di almeno 30 persone ed essere liberi dalla tessera di un qualsiasi partito.

Ma la vera novità è stato il modo in cui è stata redatta la magna charta. "Io credo - ha detto Thorvaldur Gylfason, un membro del Consiglio costituente - che questa sia la prima volta in cui una costituzione viene abbozzata principalmente in Internet".
.


chiunque poteva seguire i progressi della costituzione davanti ai propri occhi. Le riunioni del Consiglio erano trasmesse in streaming online e chiunque poteva commentare le bozze e lanciare da casa le proprie proposte. Veniva così ribaltato il concetto per cui le basi di una nazione vanno poste in stanze buie e segrete, per mano di pochi saggi. La costituzione scaturita da questo processo partecipato di democrazia diretta verrà sottoposta al vaglio del parlamento immediatamente dopo le prossime elezioni.
Ed eccoci così arrivati ad oggi. Con l'Islanda che si sta riprendendo dalla terribile crisi economica e lo sta facendo in modo del tutto opposto a quello che viene generalmente propagandato come inevitabile. Niente salvataggi da parte di Bce o Fmi, niente cessione della propria sovranità a nazioni straniere, ma piuttosto un percorso di riappropriazione dei diritti e della partecipazione
Lo sappiano i cittadini greci, cui è stato detto che la svendita del settore pubblico era l'unica soluzione. E lo tengano a mente anche quelli portoghesi, spagnoli ed italiani. In Islanda è stato riaffermato un principio fondamentale: è la volontà del popolo sovrano a determinare le sorti di una nazione, e questa deve prevalere su qualsiasi accordo o pretesa internazionale. Per questo nessuno racconta a gran voce la storia islandese. Cosa accadrebbe se lo scoprissero tutti?  (fonte ilcambiamento.it)

Sperando che abbiate avuto la pazienza di leggere questo Fanta-romanzo, al limite della realtà e della credibilità..... e se ne avete avuto la pazienza, sono certo che avrete fatto dei paralleli. E il vostro ragionamento, sarà corso, per comparazione agli ultimi accadimenti Greci, così come alla situazione poitico-economico-finanziaria del nostro Bel Paese.


Ma potreste immaginare un paese, la nostra Italia, che mette alla sbarra i responsabili del nostro debito pubblico, alla stessa stregua dei ladri di strada? 
Potreste immaginare i nostri Governanti degli ultimi 60 anni, deposti per volere di tutti quei  cittadini che scendono in strada, di tutti quegli indignados che per loro colpa vedono volatilizzati nel nulla, tutti i sacrifici di una vita. E, quale beffa, devono ora sopportare tutti i sacrifici di un improbabile risanamento di un buco, una voragine, che loro hanno causato. 
Potreste immaginare di portarli a giudizio, imputando loro la colpa del dissesto finanziario che Loro hanno causato, con lo sperpero di enormi risorse riversati in mille rivoli, dispersi in finanziamenti clientelari, il cui principale scopo non era il bene pubblico ma il loro mantenersi a galla?
Non sarebbe giusto far pagare a loro, il debito che LORO hanno accumulato. LORO che hanno vissuto a sbafo tutta la loro esistenza e continuano a farlo con le pensioni dorate che si sono dati, pagate da noi. 
Immaginate la confisca delle loro lussuose abitazioni, delle loro belle automobili sportive, delle loro imbarcazioni da diporto, la privazione ed il divieto di presentarsi a feste mondane dove si mangia caviale e si beve champagne, il divieto di presenziare,  alle prime della scala, alle manifestazioni della moda, con le sedie in prima fila e per finire l’espropriazione delle loro assurde, impensabili, ricche, pappone pensioni.
Perchè non portarli alla sbarra e non condannarli ..... alla libertà, ad una pensione,che maturerà alla soglia dei settant’anni, magari di 750 euro al mese, costringendoli a vivere nei sobborghi di una grande città ....con un scorta che insegni loro come vive il cittadino NORMALE. Quello che loro non conoscono e non hanno mai conosciuto e comunque mai rispettato.
Utopia?  nooooooo.......è successo.... in Islanda è successo !!!!!!!!.......
Riappropriamoci del nostro futuro. non diamo ascolto a quei poteri che mirano solo a proteggersi e a riprodurre se stessi. Pensiamo seriamente al nostro futuro.
Ricordiamoci che la democrazia, quella vera, si esercita quando si interpreta la volontà dei cittadini, di tutti i cittadini, non solo di taluni.
Ma vi immaginate una Islanda qui da noi? (rileggete i passi scritti in azzurro) ..... quando anche noi prenderemo coscienza di noi stessi!!!!!!!!!
mauro lago